«Non ho mai avuto dubbi: quella era la mia squadra, ed era una squadra che vinceva. Prima di conoscere l’opulenza e la grandiosità delle Juventus che ci hanno fatto godere, però, ne ho conosciuto la parte operaia, umile, quella che non si dà mai per vinta: una forza tipica dello stile Juventus. Poi fu un crescendo rossiniano…»
Così si presenta, davanti ad una platea ammaliata dalla sua brillante eloquenza, lo scrittore Premio Strega Sandro Veronesi, terzo ospite del Museo dopo le conversazioni con **Salvatore Accardo** e **Neri Marcorè**.
Il cortocircuito tra calcio e letteratura in scena oggi al JMuseum diventa così, in breve, una scoppiettante rassegna di aneddoti e digressioni, riflessioni sul calcio e sulle intersezioni tra questo splendido sport e la vita dello scrittore (cronista e commentatore “gobbo” per passione), uno tra i più brillanti del panorama letterario italiano.
L’autore fiorentino – da sempre bianconero, nonostante la “difficoltà ambientali” date dall’essere nato in una città storicamente rivale - non può che iniziare la sua digressione nella sala conferenze del Museum proprio dal quella lontana quanto convinta scelta di campo. «Abbastanza ovvia è stata la mia fede non viola, avendo vissuto da piccolo a Prato: quando ero piccolo io Milan e Inter non facevano prendere palla alla Fiorentina, quando dovetti scegliermi la squadra la Fiorentina era una sorta di tabù, e scelsi la Juventus. La parola Juventus fu la prima parola che pronunciai dopo un’operazione alle tonsille, alla domanda del prete di allora che mi chiese che squadra tenevo».
«Non ho mai saltato una partita perché dovevo lavorare, non sia mai, è quasi immorale. Al massimo per un errore di valutazione», confessa tra i sorrisi lo scrittore fiorentino, ammettendo il rammarico per non aver assistito a quel famoso 1-6 di San Siro contro i rossoneri. «Sono scaramantico anche perché sono parte di un sistema scaramantico: mi lascio guidare dalle forze apotropaiche esterne, e sono stato perfino accusato di aver cambiato posto in occasione di quell’ammonizione di Nedved in semifinale contro il Real Madrid», ha confessato con la consueta ironia e leggerezza.
«Sono però abituato a soffrire da solo: mio padre era un blando tifoso del Bologna, e così ho preso il vezzo di vedere le partite in solitaria»
La conversazione al museo si snoda tra ricordi e aneddoti, come quelli dal periodo passato come Inviato per l’Unità da Montevideo per la Coppa America 1995 portati alla luce dal giornalista Darwin Pastorin. Un’esperienza in cui lo scrittore si mise “a contare per la prima volta della vita i calci d’angolo” – lui, scrittore tra i giornalisti sportivi con già alle spalle successi come Gli Sfiorati e Venite venite B52. Insomma, un Lujo para la Copa. Durante la chiacchierata, si passa dall’emozione incontenibile per la vittoria dello scudetto del ’95, appeso alla traversa del Delle Alpi, fino alla prima sigaretta fumata dopo anni d’astinenza quando Roberto Baggio venne sostituito al Mondiale. Ed è proprio in momenti del genere che nascono i germi di alcuni dei suoi più brillanti racconti, anche se “nei miei romanzi mi piace mettere in scena l’opposto di quanto io condivida”, confessa. «Amo descrivere personaggi non progressisti, bensì conservatori. La Juventus la tengo fuori dai miei romanzi, perché scrivere è anche un’occasione per avvicinare l’alterità. Un mondo altrettanto romantico».
Veronesi, che commenta le vicende della Vecchia Signora sulla carta stampata e in passato ha prestato la sua penna ad una raccolta di racconti sulla Juventus (Juve! Undici scrittori raccontano una grande passione), ha confessato nel corso dell’incontro “quella sua passione per i difensori”, soprattutto per quelli meno celebrati dalla storia come Roveta, Masiello, Osti, Mastropasqua, Viganò.
E quella, naturalmente, per i grandi del presente come Andrea Barzagli, fiesolano: una rivincita ai “fischi e alle bordate toscane sofferte in vita mia,” ammette sorridendo.
«La storia che ti lega alla tua squadra del cuore è qualcosa di romantico», ha concluso rispondendo alla domanda di uno dei tanti fan accorsi al JMuseum. «Per un tifoso della Juventus è ancora più difficile da dimostrare in quanto è una squadra così vincente. Per cui sento un po’ come un dovere da scrittore spiegare che la Juventus è la squadra che ha più vinto e perduto – e proprio sapendo perdere si impara a vincere. Amarla in questo modo dà ancora quel senso romantico di tifo che appartiene ad epoche passate».
Terminato l’incontro, il terzo ospite di questo ciclo di incontri ha ricevuto dalle mani dell Presidente del JMuseum, Garimberti, la maglia numero tre – quella di tanti difensori da lui decantati e ammirati. Qualche scatto con i suoi lettori, e poi via in stazione a prendere il treno. Stasera, d’altronde, gioca la sua Signora.