Come si raggiunge l'eccellenza, nella vita, nel lavoro e nello sport? La risposta è semplice, o apparentemente tale: con l'umiltà, la passione e il sacrificio, oltre che attraverso l'allenamento, l'attitudine, ed anche il giusto team, con cui costruire lo spirito di squadra fondamentale per raggiungere i più grandi successi.
Parole chiave, queste, che, fanno parte della DNA della Juventus e di uno dei più grandi protagonisti bianconeri: Andrea Barzagli, colonna della nostra retroguardia che questa sera si è raccontato allo Stadium di fronte ad un intervistatore e ad una platea d'eccezione. L'intervistatore è Federico Buffa, giornalista acuto e storyteller inimitabile. La platea è quella dei Manager delle più importanti aziende italiane, riuniti da Randstad, Official Partner di Juventus e secondo operatore mondiale nell'ambito delle risorse umane, che ha organizzato un un Workshop inedito ed estremamente stimolante: la Roccia, sapientemente guidata da Buffa, ripercorre le tappe della sua straordinaria carriera, partita dai campi di provincia del San Michele Cattolica Virtus e arrivata al titolo Mondiale e ai trionfi in bianconero.L'incontro, intitolato “Andrea Barzagli: la crescita di un campione”, prende il via proprio con i primi calci del difensore, alla la Cattolica Virtus e poi alla Rondinella :«È stato l'inizio di un ragazzo che sognava – racconta Andrea - ma che non si rendeva conto di poter fare una carriera del genere, perché non vivevo il calcio con l'idea di diventare un professionista. Il pianeta Serie A lo si vedeva molto lontano».
Quindi ecco il passaggio da centrocampista, già, perché era a metà campo il primo ruolo di Andrea, fino a quando non incontrò mister Pillon: «Non ero molto convinto all'inizio, ma piano piano cominciai ad abituarmi a marcare l'uomo. A Pistoia poi giocai per sei mesi come compagno di mister Allegri - ricorda Barzagli - e sostiene ancora oggi che fu lui a suggerire il cambio di ruolo “Gliel'ho detto io a Pillon di metterti difensore”...».Per affermarsi però serve più di un'intuizione di un tecnico: «È fondamentale non sentirsi mai arrivati e, soprattutto, la voglia di lavorare. Anche i grandi talenti sono i primi a non tirarsi indietro e quella è la forza di un vero campione».Questa cultura del lavoro in fondo è anche la forza della Juve: «Chi arriva, non ha bisogno di sentirsi fare tanti discorsi - spiega Andrea - guarda i giocatori che sono qui da più tempo. È accaduto anche a me e anche se non si è abituati a certi ritmi, ci si adegua, perché questo è il mondo Juve».
Si va poi sui punti di forza di Andrea che nell'”uno contro uno” è sicuramente tra i migliori al mondo: «Cerco di prepararmi bene, guardo le caratteristiche dell'avversario, se è destro o sinistro, quale piede usa più nel dribbling o per il tiro. È un problema se fanno tutto con entrambi i piedi... Non è facile allenare l'uno contro uno e devo ammettere che in allenamento capita raramente che riesca a vincere i duelli».
Quindi l'avventura in Germania, al Wolfsburg, il vero salto di qualità nella carriera di Andrea: «In quel periodo sono diventato padre e sia per me che per mia moglie era la prima esperienza all'estero. Ero un'altra persona prima ed ero un giocatore “medio”: giocavo nel Palermo, ma dopo il Mondiale pensavo che avrei potuto avere di più e andare in una grande squadra. Non me lo meritavo però e quando arrivò l'offerta del Wolfsburg, che per il giocatore che ero era eccessiva, accettai. Lì trovai un allenatore, un certo Felix Magath, che ha stravolto completamente la mia mentalità. Ogni volta che mi lamentavo mi diceva: “Sai perché non ti alleni bene? Perché non credi in quello che fai”. Io in effetti in allenamento davo il 70, l'80% e non prendevo mai la palla... Lì è cambiato il mio modo di allenarmi. Da allora do sempre il 100%».Così è nato il desiderio, continuo, costante, di vincere: «Non ne vado fiero, ma a volte, quando ero a casa, mia moglie mi diceva che ero assente. Questo perché il mio pensiero era fisso al calcio. E in effetti, dopo il primo campionato vinto con la Juve, ricordo che ero in vacanza, e non riuscivo a pensare ad altro: “Dobbiamo vincere il secondo scudetto di fila”. Mi era venuta una fame pazzesca. Non so cosa mi sia successo qui alla Juve, ma è così. Al calcio ho dovuto sacrificare molto tempo, che avrei potuto trascorrere con la mia famiglia, e spero di poterlo recuperare in futuro, ma tutto quello che abbiamo lo dobbiamo al calcio. È il mio lavoro. Lo scopo della mia vita».