Abbiamo giocato una sola volta a Birmingham, esattamente il 2 marzo 1983. Ma proprio l'unicità della sfida, oltre che l'esito favorevole, rende mitica quella trasferta inglese in casa dei detentori della Coppa dei Campioni. Sono tre anni indimenticabili quelli vissuti dall'Aston Villa, i migliori di una storia più che centenaria, nata nel lontanissimo 1874. Un percorso che definire incredibile non è un eufemismo, se si tiene conto che all'inizio del precedente decennio i bordeaux-celesti navigavano nelle acque limacciose della terza divisione. Difficile sognare di meglio: campioni d'Inghilterra nel 1981; vincitori del massimo trofeo europeo piegando in finale i più che favoriti avversari del Bayern Monaco nel 1982; infine, a chiudere perfettamente il ciclo, l'affermazione in Supercoppa Europea sul Barcellona.
Nessun stupore, a ben guardare, che un club britannico non di primissima fascia riuscisse a scrivere pagine così belle in quella particolare fase storica. A dispetto della Nazionale, incapace di uscire dalla presunzione di considerarsi i maestri del calcio, un fatto diventato progressivamente un'opinione a eccezione del Mondiale del 1966, per i club si può parlare di una vera e propria egemonia. Ne è la dimostrazione proprio la coppa dalle grandi orecchie, dal 1977 passata di mano tra i giocatori del Liverpool, quelli del Nottingham Forest e – per l'appunto – i magnifici 11 dell'Aston Villa (8 inglesi e 3 scozzesi, per la precisione: nessuna stella, ma tanta sostanza tipica di un calcio atletico, fatto di agonismo, contrasti, cross e ricerca della porta per la via più diretta).
LA ROTTURA DELLA TRADIZIONE
Aston Villa-Juventus si gioca all'andata dei quarti di finale. Sulla sfida pesa una tradizione negativa e non solo per i bianconeri. Su 30 viaggi dei club italiani in Inghilterra, per 23 volte si è tornati in patria con una sconfitta, in 6 circostanze si è rimediato un pareggio e c'è solo un precedente positivo. Merito del Bologna: nella Coppa delle Fiere del 1966-67 supera 3-1 il West Bromwich Albion, che in quella gara giocò proprio a Birmingham (c'è poco da fare: il calcio è un contenitore di coincidenze senza eguali). La stessa Juve si presenta all'appuntamento senza precedentemente avere lasciato una traccia profonda del suo valore, se non nella capacità di limitare i danni per poi ribaltare i risultati negativi a Torino, com'era successo nella Coppa Uefa vinta nel 1976-77, quando le sconfitte di misura con entrambi i Manchester non avevano impedito il passaggio del turno nella gara di ritorno.
Stavolta è diverso e lo si capisce subito: Paolo Rossi va in rete dopo una manciata di secondi, bruciando sul tempo il difensore e pure la diretta televisiva di TeleMontecarlo, intenta a trasmettere ancora inserti pubblicitari dopo il fischio d'inizio. E Zbigniew Boniek colpisce a 7 minuti dal termine dopo il pareggio di Gordon Cowans, dimostrando che la Signora non si accontenta dell'1-1. Al Comunale la superiorità sarà ancora più netta, tradotta col punteggio di 3-1.
LO STADIO E LA città
Il Villa Park ha un primato difficilmente eguagliabile: è l'unico impianto al mondo ad avere ospitato incontri tra rappresentative nazionali in tre secoli diversi, dal diciannovesimo al ventunesimo. Su Hurrà Juventus, che celebra con diversi pezzi l'impresa della Juve, Vladimiro Caminiti lo definisce uno “stadio in legno” e si lamenta delle condizioni di lavoro: “Eravamo alloggiati in una tribunetta stampa che disponeva di tutto meno che di spazio. Ho dovuto raccontare la partita mentre si giocava, cercando coi gomiti e la rabbia gli aggettivi giusti”.
Estende il suo sguardo alla città Giovanni Lodigiani, che firma un pezzo gustoso, Il privilegio di essere juventini (a Birmingham): “Birmingham è una città che immaginavo con meno grattacieli nel suo centro, dove domina il supermarket del “Bull Ring” e la torre ricca di uffici con la pubblicità della Coca-Cola e l'ora luminosa”. A un italiano che ancora non vive la globalizzazione in casa propria, non sfugge la visibile differenza di un Paese dall'articolata presenza di stranieri: “Abbondano neri, cinesi e indiani: hanno i loro ritrovi particolari”. L'Inghilterra old style – quella che conosciamo tutti anche senza bisogno di visitarla - invece, è racchiusa in tre concetti che sfiorano quel sapere sedimentato che sono i luoghi comuni: le abitazioni ( “La periferia è ancora tradizionale: le casette di mattoni scuri, vecchie ma originali, con un pezzetto di terra per il giardino e l'auto”); il tempo (“così imprevedibile, cosi veramente variabile, cosi inglese”); la cucina (“assai penosa - è noto - crea problemi non indifferenti. Una buona soluzione è quella di riempirsi con la colazione, la “breakfast”, buona e varia; adattabile a tutti”, con ovviamente un finale prevedibile: la visita ai ristoranti italiani (oggi, a 37 anni di distanza, nella città di Birmingham se ne contano ben 113...)