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Cara Juve, ti saluto…

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Cara Juve, ti saluto…
Cara Juve, ti saluto…
Cara Juve, ti saluto…

Il Derby di martedì sera sarà una giornata speciale, non come le altre. Non soltanto perché una stracittadina è sempre una partita carica di emozione e significati, ma anche e soprattutto perché sarà l’ultima telecronaca della voce storica della Juventus, Enrico Zambruno. 

Una voce che ha segnato davvero un’epoca, con oltre 1200 telecronache, calcolando le prime squadre, maschili e femminili, la Next Gen e le giovanili.

Una voce che, dal 2009, quando ha salutato per la prima volta i tifosi dalla tribuna stampa di uno stadio, ha raccontato davvero un’era, quella dei record, degli Scudetti, delle Finali di Champions. Quattordici anni, quattordici stagioni, migliaia di minuti, decine di trasferte, un bagaglio di ricordi enorme, che abbiamo chiesto proprio a Enrico di riassumere, sebbene sapessimo fosse difficile. 

Allora vi lasciamo alle sue parole, che in tre ricordi speciali provano a raccontare cosa si prova a raccontare la leggenda della Juventus.

E tu ci sei riuscito in modo incredibile.

GRAZIE, ENRICO.

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Il vecchio stadio Comunale distava dieci minuti a piedi da casa mia. Ero piccolo, e con mio papà e mio fratello partivamo un’oretta prima del fischio d’inizio, sciarpa di raso al collo, per andare a vedere la Juve. Salivo le gradinate e lo sguardo, dopo aver scrutato l’orizzonte e quel campo che mi sembrava ogni domenica sempre più grande e bello, finiva sempre lì. In tribuna stampa. Era magnetica per me. Continuavo a chiedermi cosa si facesse lì, come ci si muovesse, se davvero i giornalisti a fine gara potevano parlare con i calciatori. Ma, soprattutto, mi incuriosiva una figura in particolare: quella del telecronista.

Tanti anni dopo, eccomi proprio lì. A raccontare la mia squadra del cuore, a seguirla ovunque in giro per l’Europa e per il mondo, sempre con quelle stesse cuffie a farmi compagnia. Quattordici anni impossibili da riassumere. Per le meravigliose persone che ho incontrato in questo lungo percorso, per i battiti del cuore che sono esplosi nei tanti momenti di gioia e - perché no - anche di delusione. Già, perché nei momenti di “dolore” sportivo, questi colori li ami ancora di più.

Trieste, 5 maggio 2012.

Vigilia di Cagliari-Juve. Notte ventosa. Non si dorme, come si fa? Domani potremo essere Campioni d’Italia.

La vigilia è sempre stato uno dei miei momenti preferiti, un cocktail dinamico di adrenalina e gioia con una spolverata di paura. Quel giorno lì è diverso però. Sono sul balcone che da sull’entrata dell’hotel, mi affaccio e vedo un bambino (avrà avuto 7-8 anni) che chiede al papà: «Domani vinciamo lo Scudetto, me lo prometti vero?». Il padre fa una pausa che mi sembra eterna e lo abbraccia. «Domani festeggiamo insieme, te lo prometto». E’ la prima cosa che mi è venuta in mente al fischio finale, il giorno dopo. Gol di Mirko, autogol di Canini. Siamo campioni. Scendo le scale del Nereo Rocco in lacrime ma le devo asciugare subito, c’è la diretta. Lo spogliatoio è un delirio, la festa è magica. Tutto è magico. Wow, il primo scudetto. Mai, quel giorno, avrei pensato che ne avremmo vinti altri otto di fila. Irreale.

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Scendo le scale del Nereo Rocco in lacrime ma le devo asciugare subito, c’è la diretta.

Madrid, 13 maggio 2015.

Champions League, semifinale di ritorno. Il Santiago Bernabeu incute timore, ma il mio problema è un altro. Da due giorni sono senza voce. La partita si gioca il mercoledì. Lunedì zero. Martedì voce al 30%. Sudo freddo e chiedo consigli. Le provo tutte: miele, di cui ancora oggi sento il gusto, litri d’acqua, pastiglie e così via. Ma, soprattutto, non parlo mai. Zitto, silenzio tombale, non propriamente la mia specialità. La voce tornerà, Morata segnerà, Vidal si incollerà alla bandierina al 95°. Non parlerò per i tre giorni successivi, ma che bella quella notte. Che finisce con tutta la nostra fila (c’erano altri colleghi seduti vicino a me) con le braccia al cielo per la gioia e i tifosi del Madrid - che capiscono di calcio come pochi al mondo - che applaudono alla nostra impresa. Che classe.

Non parlerò per i tre giorni successivi, ma che bella quella notte.

Londra, 7 marzo 2018.

Wembley è bellissimo ma è anche tanto grande. E gli stadi grandi vanno in rotta di collisione con i telecronisti, perché l’obiettivo è vedere bene e più sei lontano dal campo e peggio è. Però a Wembley si può perdonare tutto. Ritorno degli ottavi di Champions League. C’è il Tottenham, che all’andata a Torino ci ha fermato sul 2-2. A 20’ dal fischio d’inizio si spegne la postazione commento. Ok, stiamo calmi. Gli occhi di Marcello, il mio angelo custode in tutti questi anni, amico e cameraman eccezionale, sono preoccupati. E lui non è mai preoccupato, quindi il problema è grosso. Se non si accende, niente telecronaca. Non so come, a 5’ dall’inizio riesce ad accenderla e siamo live. Boom. E’ l’inizio di una notte perfetta, di una sofferenza inaudita, dello steward sosia di Dustin Hoffman (era uguale) che - giustamente - mi dice di tranquillizzarmi dopo il pareggio del Pipita. Tornerà da me, dopo il 2-1 di Paulo. Occhi spiritati, molto più severo, anche questa volta a ragion veduta. Ma la Juventus era in vantaggio, a Wembley, uno stadio che immaginavo nella mia cameretta quando giocavo le mie partite di fantasia. Finisce in trionfo.

Ma la Juventus era in vantaggio, a Wembley, uno stadio che immaginavo nella mia cameretta quando giocavo le mie partite di fantasia. Finisce in trionfo.

Sono stati 14 anni meravigliosi. La Juve ti entra dentro, ti tempra, ti ispira.

Grazie.

Fino alla Fine.

Enrico Zambruno Best

Enrico Zambruno Best

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