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Il discorso di Andrea Agnelli agli Azionisti

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Il discorso di Andrea Agnelli agli Azionisti
Il discorso di Andrea Agnelli agli Azionisti
Il discorso di Andrea Agnelli agli Azionisti

Il Presidente Andrea Agnelli ha aperto i lavori dell'Assemblea degli Azioniti con queste parole:

Solamente una volta nella sua storia la Juventus ha vissuto un periodo paragonabile a quello che stiamo attraversando. Nel maggio di quest’anno abbiamo conseguito il terzo scudetto consecutivo, un’impresa che i colori bianconeri non vedevano dagli anni ’30 del secolo scorso. Ebbene la Juventus, ancora una volta prima nella storia, ha saputo ripetersi a distanza di quasi 80 anni, segnando un altro crocevia nel calcio italiano.

Nessuno che vesta la maglia della Juventus ha voglia di fermarsi; “il successo più importante è il prossimo” ci hanno insegnato. L’area sportiva ha basi solide, costituite, in primis, da Massimiliano Allegri, un tecnico che ha già dimostrato di saper vincere, e che insieme a Fabio Paratici e Pavel Nedved, e ad un gruppo di calciatori in grado di affrontare le nuove sfide, sta lavorando per vincere il quarto scudetto consecutivo. Un’impresa che ci avvicinerebbe alla leggenda.

Questi risultati hanno anche e soprattutto fondamenta gestionali, che questo gruppo dirigente ha saputo costruire fin dal 2010, quando per la prima volta ho avuto l’onore di presiedere questa assemblea. La struttura e il livello dei ricavi, frutto del lavoro quotidiano delle donne e degli uomini della Juventus, che qui idealmente ringrazio individualmente, hanno portato la Juventus ad un fatturato di 280,5 milioni di ricavi caratteristici, composti da match day, commerciali e diritti televisivi, che al lordo della “gestione calciatori” porta il fatturato per la prima volta della nostra storia sopra i 300 milioni; esattamente a 315,8 milioni. Il break-even ante imposte, e il ritorno dopo quattro anni all’utile operativo, uno degli obiettivi che ci eravamo prefissati, completano il quadro di questo turnaround, che in pochi ritenevano possibile.

Tutto bene quindi? No.

Basta guardare con un minimo di distacco e senza partigianeria la situazione del calcio italiano per riconoscerne il progressivo declino. Qualcuno nell’establishment ha avuto il coraggio di sostenere che, siccome l’Italia nel suo complesso ha perso terreno in ogni comparto, allora la crescita della nostra industry, seppur inferiore a quella di altri Paesi, dovrebbe tranquillizzarci. Non è così poiché si tratta di una crescita legata esclusivamente all'evoluzione del mercato televisivo.

Meno di vent’anni fa Inghilterra, Spagna e Germania guardavano all’Italia come ad un esempio: oggi ci hanno sopravanzato in qualsiasi parametro di riferimento: 1) livello di ricavi 2) in termini di sostenibilità del business 3) risultati sportivi 4) valori assoluti e relativi di riempimento degli stadi 5) ranking UEFA. Oggi fatichiamo a difendere la quarta posizione dal Portogallo.

Il livello di fatturato che vi presentiamo riconferma la Juventus nelle prime dieci società calcistiche al mondo, ed il ranking Uefa è migliorato. Ma i nostri principali competitor, Real Madrid, Bayern Monaco, Manchester United, Barcelona, ci hanno distanziato nettamente. Nessuna società italiana, è stata in grado di crescere al loro ritmo: segno di un evidente limite strutturale che affligge il nostro calcio.

Karl Kraus diceva che una delle malattie più diffuse è la diagnosi. Verissimo, ma in questo paese in troppi hanno pensato che la malattia fosse inesistente. Solamente dieci anni fa dalla gestione “match day” la serie A generava gli stessi ricavi della Bundesliga, poco meno di quelli della Liga spagnola e circa un terzo di quelli della Premier League. Eravamo già allora una tartaruga oggi siamo un gambero. La Bundesliga e la Liga generano oggi il doppio e i ricavi da stadio del nostro calcio sono scesi sotto la soglia dei 200 milioni di euro, di cui il 20%, un quinto, prodotti dallo Juventus Stadium. Quest’ultimo rimane invece l’unico esempio di struttura all’avanguardia, ma rappresenta soltanto un ventesimo del prodotto complessivo. Troppo poco.

Il calcio è degli appassionati ma i tifosi, le famiglie, hanno progressivamente abbandonato gli stadi italiani. Qualcuno, in certi casi in modo sorprendente, attribuisce la colpa al miglioramento dell’offerta televisiva. Mi pare una tesi singolare, anche perché senza diritti televisivi il calcio italiano sarebbe da tempo moribondo. E lo sarà presto se non saprà cogliere una doppia sfida.

Sul fronte interno gli appassionati devono tornare a popolare gli stadi. La Juventus, grazie allo Stadium, ha raggiunto una percentuale di saturazione del 95% per cento (fa notizia quando NON è tutto esaurito), il resto della serie A viaggia costantemente sotto al 50% con un declino progressivo.

E poi l’estero. La sfida di un mercato ormai davvero globale. Negli ultimi dieci anni il calcio italiano è scomparso dagli schermi televisivi dei maggiori mercati occidentali e non ha saputo conquistarne di nuovi. Nello stesso periodo Spagna ed Inghilterra si dedicavano alla costruzione di brand davvero globali con evidenti riflessi sui ricavi commerciali delle singole società. Solamente per darvi un esempio: il Liverpool ha attualmente un main sponsor, Standard Chartered (25M all’anno) che non opera in Europa. Si tratta di un’istituzione finanziaria attiva esclusivamente in Asia, Africa e in Medio Oriente. Mi pare un esempio molto significativo per descrivere il forte traino che il marchio English Premier League ha saputo generare per le “sue” squadre nell’ultima decade, dopo un lungo lavoro iniziato all’inizio degli anni ’90.

In Juventus stiamo cercando di recuperare il terreno perduto e dal primo luglio 2015, grazie al nuovo accordo con Adidas e al rinnovo dell’accordo con Jeep, riposizioneremo la nostra maglia a valori nettamente superiori a quelli attuali ed in linea con i grandi europei di seconda fascia. Ma l’aggressione e la conquista di nuove partnership non si deve fermare alla maglia. Tournée e digital media consentono oggi nuove potenzialità e nuove geolocalizzazioni che ci permetteranno di ampliare i ricavi. Ma ancora una volta la Juventus potrà crescere solo frazionalmente se il prodotto collettivo serie A non farà altrettanto.

Io sono convinto che nel calcio italiano le forze conservatrici, che al momento paiono prevalere a tutela di piccoli e grandi interessi particolari e rendite personali, non riusciranno a soffocare quanti sostengono il cambiamento.

La governance del calcio ha dimostrato tutti i suoi limiti nell’estate appena trascorsa. Venuta meno una consolidata consuetudine, il meccanismo cervellotico di elezione del presidente federale è riuscito a trascurare le indicazioni di tutte le componenti tecniche, calciatori, allenatori e arbitri, e di una consistente parte della serie A. Si è trattato di una sconfitta per tanti e di una vittoria per alcuni abili e disinvolti personaggi, che affondano le radici del loro consenso in un tempo lontano, durante il quale la logica delle satrapie poteva reggere il potere. Ma si è trattato soprattutto di una sconfitta per il calcio italiano, che ha dato un’immagine di sé stantia e senza alcuna propensione riformista. I risultati sono sotto i nostri occhi già oggi. L’Uefa ci guarda con circospezione così come gli osservatori internazionali, e perfino il governo italiano non ha trovato un valido interlocutore con cui confrontarsi nell’elaborazione del decreto sulla sicurezza negli stadi.

Il calcio, il pallone, va riportato al centro del nostro comparto, mettendo al bando piccole operazioni di breve respiro. La Juventus, per tradizione, è aperta al dialogo con tutti, ma non avallerà palliativi di facciata.

Il calcio deve essere al centro dicevo. La revisione delle rose delle società di serie A, di cui si parla in questi giorni, è sacrosanta, ma deve essere sostenuta da una politica di immigrazione che sappia governare la situazione di un mondo in costante movimento e dalla istituzione delle seconde squadre, da preferirsi alle cosiddette multiproprietà, che non farebbero altro che alimentare valutazioni artificiose e piccoli potentati provinciali. I club competitor in Europa hanno giovani iscrivibili nella lista B dell’Uefa con presenze in prima squadra molto superiori ai loro pari età italiani. Non si tratta di coraggio, si tratta di gestione e programmazione, caratteristiche che il sistema delle seconde squadre può garantire grazie al passaggio, a stagione in corso, di giovani dalla seconda alla prima squadra.

L’ampliamento dei ricavi del mercato televisivo nel triennio 15-18, +20% rispetto al 12-15, oggi è una realtà e deve conferire stabilità al sistema, in primis con garanzie maggiori per i club retrocessi dalla A alla B: un’eventualità che oggi somma alla delusione sportiva il disastro economico e, in secondo luogo, con un progressivo ulteriore ridimensionamento del numero di società in Lega Pro. Questo per garantire razionalità ed efficienza ad un sistema che per troppi anni ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità.

In un libro di Simon Kuper, apparso molti anni fa dal titolo “Football Against the Enemy”, l’autore scriveva: “Quando il tifoso inglese passa a miglior vita, va in Italia, dove trova i migliori giocatori del mondo, partite trasmesse per intero in televisione e un gran numero di giornali sportivi. E trova pure bel tempo!”. Questa era la Serie A per gli inglesi vent’anni fa. Non lo dico con nostalgia.

Lo affermo con l’ambizione che l’Italia torni ad essere IL punto di riferimento.

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